Boris era una serie molto italiana, ma non c’era niente di male

Senti Cristina, io sono molto stanco. Io ho quasi 50 anni e ho la casa mezza sfondata, questo non sarebbe grave però eh, la cosa grave è che qui a me mi stanno facendo fuori, hai capito? Io presto dovrò reinventarmi tutto e credimi che a 50 anni non è facile. Tu sei una ragazza giovane, tu prendi 200 mila euro per sei mesi di lavoro, quando c’è gente che per mille euro al mese sfonda le strade col martello pneumatico senza battere ciglio e lotta per vivere una vita di merda. Io penso che sarebbe bello per una volta vedere le cose nella giusta ottica, no? eh? E fare semplicemente il proprio dovere, senza capricci, senza problemi. In questo caso piangendo, se è il caso di piangere.

Hai finito d’attaccarmi la pippa Renè?

Boris è stato un fenomeno difficilmente spiegabile. Come molte cose che succedono nel nostro Paese non è stato parte di un movimento coerente ma un’incredibile eccezione. È stata una serie di qualità, per gli attori, per la regia, per la sceneggiatura: si è pienamente adeguata agli standard internazionali delle serie tv (che in realtà sarebbero venuti dopo) pur mantendendo dei contenuti molto italiani, italianissimi. Infatti, per quanto ben realizzata, Boris per essere fatta capire a un pubblico straniero avrebbe bisogno di un corso propedeutico di usi e costumi italiani, una sorta di Cura Ludovico, solo per avere i requisiti per apprezzarla davvero.

Intendiamoci, Boris parla di televisione e cinema, quindi prima di forzare troppo l’allegoria è giusto tenerlo a mente. Tuttavia riesce a fare magistralmente qualcos’altro: spiegare il nostro Paese. Non attaccandoci la pippa su tutto ciò che non va, ma raccontando le disfunzioni nostrane in maniera sottile e sussurrata, a volte con una semplice smorfia. Per dirla terra terra, Boris è come avere il C2 di una lingua straniera: lo so che la sai, quindi è inutile che ti spiego le basi della grammatica per comunicare. Passiamo direttamente ai dettagli. Lo spezzone trascritto qualche riga più sopra è esemplificativo di tutto ciò. In realtà è solo uno tra le centinaia che potrebbero essere presi e passati al setaccio alla ricerca di significati nascosti eppure, questo trasmette alla perfezione il livello di meta-italianità che la serie raggiunge. È una sorta di Stele di Rosetta per chi vuole davvero capire cosa significa essere molto italiani, sia negli aspetti folkloristicamente socio-politici ma anche, e soprattutto, nel sentimento che mettiamo nella nostra vita da mediterranei.

Senti Cristina, io sono molto stanco. Quando Renè inizia il suo discorso, la trasmette davvero, questa stanchezza. Inizialmente prende un respiro e fa una smorfia di impazienza mista a rancore. Poi però si rende conto che non ha la forza di arrabbiarsi e così, calcando la mano sul volto, si toglie metaforicamente la maschera, mettendo a nudo la sua vulnerabilità. È evidente che non si tratta di una stanchezza meramente fisica ma di fatica derivante da una frustrazione perenne, che lo accompagna ogni giorno sul set. La fatica di Sisifo, per intenderci: quella del reiterare uno sforzo disumano pur sapendo che non sfocerà in un successo. È probabilmente quella che lui prova lavorando come regista, il lavoro di uno che ha in mente un’idea che solo gli altri possono realizzargli.

Io ho quasi 50 anni e ho la casa mezza sfondata, questo non sarebbe grave però eh. Appena inizia il suo sfogo, Renè attinge alla sua vita personale, in una breve digressione che si dissolve quasi istantaneamente. In primis, solleva la questione dell’età, che in effetti è un incipit molto italiano quando si discute: di solito viene usata come artificio dialettico per sbattere in faccia all’interlocutore la propria esperienza; in questo caso, sembra più un voler corroborare la questione della stanchezza, che si sopporta sempre meno con l’incalzare degli anni. Poi cita un dettaglio apparentemente fuori luogo in quel momento, quello della sua casa-mezza-sfondata: sembra uno di quei pensieri che rimangono tra i processi in background nell’inconscio di qualcuno, così poco rilevanti per tutti tranne che per se stessi. D’altronde parliamo della casa, quasi certamente di proprietà, uno dei pilastri dell’identità nazionale. Poi però Renè interrompe bruscamente questo accenno di flusso di coscienza. Per chi non sarebbe grave, però? Per Cristina che lo ascolta, perché si rende conto di star condividendo frammenti della sua vita che così poco le interesserebbero, o è un promemoria per se stesso, perché si sta rendendo conto di divagare, anche se è ben conscio del fatto che nella scala delle priorità il suo problema più pressante è la casa e non i capricci degli attori?

La cosa grave è che qui a me mi stanno facendo fuori, hai capito? Nella maggior parte della serie, Renè oscilla tra la paura e il sollievo all’idea di perdere il lavoro. Tuttavia in quanto regista di fiction, il suo è più che un semplice lavoro: è anche una questione di politica. È quel “mi stanno facendo fuori” che preoccupa Renè, ancor più della casa mezza sfondata. È forse la prospettiva di essere sollevato dal suo incarico senza averlo potuto fare prima lui, di sua iniziativa. Il togliergli la soddisfazione di liberarsi di una cosa che in fondo odia, ma che deve fare costretto da non si capisce bene chi o cosa: se dal bisogno di soldi, dal senso del dovere (il lavoro visto come una cosa da fare anche se non ci piace, altra cosa molto italiana) o da un sadico piacere di girare la monnezza, come la chiama lui.

Io presto dovrò reinventarmi tutto e credimi che a 50 anni non è facile. A volte un talento – o un’opportunità – è una condanna. Renè gode della stima di molti degli addetti ai lavori, per quanto nei suoi scorci di biografia si citino solo cose di cui si vergogna di aver girato. A Renè piace il set, come a un atleta piace l’odore del campo in cui entra durante la partita. Probabilmente è questo ciò che accomuna tutti: si inizia col fare una cosa che si ama e si finisce per odiarla, a forza di seppellire la passione sotto una valanga di compromessi. Renè sa che per quanto se ne lamenti, stare sul set è la cosa che gli riesce meglio. Mettersi a fare qualcos’altro non rappresenta una nuova prospettiva ma un salto nell’ignoto. Cambiare lavoro a volte spaventa più che perderlo.

Tu sei una ragazza giovane, tu prendi 200 mila euro per sei mesi di lavoro, quando c’è gente che per mille euro al mese sfonda le strade col martello pneumatico senza battere ciglio… A questo punto Renè si rivolge finalmente a Cristina e si arriva al cuore del discorso. Vuole farle pesare tutta una serie di cose: che è giovane, quindi per definizione fortunata e senza problemi agli occhi di qualcuno non più giovane, e che è privilegiata, per quello che prende in virtù del poco che fa. Renè è consapevole che fa parte del gioco, ma forse non si capacita ancora del perché le persone con cui ha a che fare prendano più di lui faticando molto meno. Per quanto classico sia questo pattern (c’è sempre qualcuno che si fa il mazzo più di noi, e bisogna compatirlo) nel tono di Renè non c’è volontà di umiliare, ma una disinteressata intenzione di istruire. L’esempio di chi fa lavori di fatica prendendo una paga misera è un clichè, certo, eppure risulta particolarmente efficace considerando il contesto – d’altronde Renè non sembra dirlo come frase di circostanza, ma con la consapevolezza di uno che, magari in gioventù, ha davvero fatto lavori umili prima di avere successo. È in questo momento che Cristina dimostra già cosa pensa di questa conversazione. Quando alza gli occhi al cielo, non li abbassa con il fare di qualcuno che ha incassato la parternale e ne farà tesoro, ma con l’impazienza di chi ha deciso di non ascoltarti fin dal principio.

…e lotta per vivere una vita di merda. Renè conclude così il suo pensiero sui privilegi e chi non ne ha. Lo fa con un’uscita di getto, che però spiazza per il suo pathos. Lottare per vivere (comunque) una vita di merda. Nell’ideale di lotta che abbiamo, gli sforzi profusi, nel lavoro, nello studio, nella vita, non sono mai vani, perché la fatica di oggi è il successo di domani. E invece no, perché non sempre sforzandosi si raggiunge l’ottimo. Queste poche parole messe in quest’ordine aprono un universo, sul nostro Paese e sulla vita in generale: dal dibattito sulla decennale scarsa produttività nazionale, all’etica del lavoro di matrice cattolica, che sembra finalizzata quasi esclusivamente a martoriare il proprio corpo senza possibilità alcuna di emancipazione. E questa frase riesce a fartela davvero immaginare, questa lotta: la senti, te la immagini come una lunga giornata che termina accasciandosi sul divano, sul quale ti assopisci in cinque minuti dopo aver acceso la televisione. Una giornata non rilevante, che ha il solo pregio di essere finita.

Io penso che sarebbe bello per una volta vedere le cose nella giusta ottica, no? eh? Quel “no? eh?” conclude tutta la riflessione di Renè tramutandosi quasi in supplica. È la speranza di aver fatto capire il proprio punto di vista a qualcuno, con così poche parole – perché alla fine le parole sono sempre poche. Ma è anche un tentativo disperato. Quante volte ci proviamo a metterle nella giusta ottica, le cose? Quante volte proviamo a farlo capire agli attori, ai calciatori, ai politici? Però ci viene anche un dubbio lecito: ma esiste un’ottica (ed è fisicamente un’ottica?, semicit.) e per di più giusta? Per chi? Forse non è chiara perché nessuno parla mai dell’ottica di chi li prende, questi 200 mila euro in sei mesi, visto che sarebbe un punto di vista un po’ impopolare. Infatti Cristina non vede cosa dovrebbe fare di diverso e di sicuro non vede perché dovrebbe impietosirsi.

E fare semplicemente il proprio dovere, senza capricci, senza problemi. Una delle poche volte che Renè è felice, così tanto da sorprendersi, è quando l’attrice che fa il ruolo della magistrata si comporta semplicemente da professionista, recitando come da copione. Come regista, si trova quasi sempre solo nel mare in tempesta e il suo principale compito è quello di chiedere a chi gli sta intorno di fare il proprio lavoro, senza neanche pretendere di farlo bene. Eppure quello di Renè è anche un desiderio, per quanto lecito, fin troppo naïf. Tutti vorremmo ottenere le cose che vogliamo senza ricevere una reazione uguale e contraria da parte di chi ne vuole altre, spesso in antitesi alle nostre. In un contesto più drammatico, ricorda il Sindaco di Los Angeles durante la tragica rivolta del 1992: can’t we all get along? Un tentativo così ingenuo e disperato al quale però facciamo fatica a dare torto.

In questo caso piangendo, se è il caso di piangere. Renè torna al pomo della discordia: Cristina non voleva piangere nella scena che stava girando. Eppure, alla luce di quanto detto prima, forse non è più una questione di recitazione. Forse quello che non riesce a far piangere Cristina è il non averne mai avuto bisogno, mentre Renè scoppierebbe proprio mentre finisce di parlare, per la stanchezza e la frustrazione, e per questo non si capacita di cosa ci sia di così difficile nel farlo.

Hai finito d’attaccarmi la pippa Renè? In realtà era chiaro che questa cosa Cristina la stesse già pensando dall’inizio della conversazione. Renè ha parlato a cuore aperto ma sollevando temi di scarsissimo interesse per una nella posizione di Cristina. In quel momento, spiazzato da tanta sfacciataggine, Renè le dà uno schiaffo. La scena rende alla perfezione il valore di quel gesto: la violenza come mancanza di alternativa alle parole, un bisogno di contatto fisico in sostituzione di un ponte verbale che non è stato possibile erigere – ti meno perché almeno senti (sentirmi inteso come ascoltare ma anche come percepire), legittimo con la violenza la mia presenza ai tuoi occhi. È uno schiaffo punitivo, quasi genitoriale, che sanziona un’impertinenza ingiustificabile. Ma per assurdo è solo un ulteriore, vano tentativo: Cristina reagisce con gli interessi, rispedendo al mittente anche quest’ultima prova di stabilire un contatto. Insomma, tutto ciò non è servito a niente.

Matthew Perry era un Bojack Horseman buono

Era esattemente un anno fa quando lessi questo articolo su Matthew Perry rimanendo turbato, perché mi resi conto che anche dietro la spensieratezza di Friends aleggiava lo spettro della sofferenza umana. In realtà c’era poco da esserne scioccati: come succede nella vita di chiunque, e i personaggi famosi non ne sono esenti ma anzi, a volte ci si trova a combattere contro i propri demoni. E a volte non ci è concesso sconfiggerli. Eppure, stamattina, quando ho letto la notizia della sua scomparsa non ho potuto fare a meno di sussurrare allo schermo che mi stava di fronte “ma che cazzo dici?”. Tra l’altro, Friends avevo cominciato a rivederlo proprio in questi ultimi giorni.

Il senso di lutto diffuso che causa la scomparsa un personaggio famoso può essere spiegato al di là del moto di empatia che incosciamente proviamo perché quella persona credevamo di “averla conosciuta”: quando ci lascia qualcuno come Matthew Perry, il ricordo condiviso di ciò che rappresentava – in questo caso gli anni novanta o semplicemente una serie che ci metteva di buon umore – assume contorni diversi, generando un miscuglio di nostalgia e inquietudine. Nostalgia perché ricordiamo il passato, inquietudine perché di quel passato ci rendiamo conto che stanno scomparendo le tracce.

Ancora più strano è lo scoprire che, per quella persona, gli stessi momenti che noi abbiamo consumato per ottenere i nostri futuri-ricordi piacevoli sono coincisi, per essa, con l’inizio di una forma di sofferenza derivante proprio dal suo nuovo status di personaggio famoso. Difficile dire se gli autori si fossero ispirati alla sua vicenda eppure quando, sempre poco tempo fa, ho rivisto Bojack Horseman mi sono convinto che la sua storia fosse incredibilmente simile a quella di Perry, dopo averla conosciuta da quell’articolo: l’alcolismo, l’abuso di farmaci, la depressione, la paura di non piacere più, tutti problemi di qualcuno che doveva la sua fama a una serie che parlava di qualsiasi cosa eccetto che dei problemi della vita, a cui Horsin’ Around in effetti fa il verso*. In realtà è più probabile che dietro tutto ciò ci sia solamente una matrice comune e che sia il mondo dell’intrattenimento in sé ad essere portatore sano del fenomeno. Fa solamente più male quando si associa il dramma dell’esistenza ai prodotti cultural-pop più semplici e innocui, in cui pretendiamo che gli attori che interpretano quei ruoli siano davvero felici e spensierati anche fuori dal set, possibilmente per sempre.

Quando recentemente ho finito di rivedere Bojack Horseman a qualche anno di distanza dalla prima volta, ho provato a dedicargli un post: ho adorato la serie, e il rewatch me l’ha confermato, ma ci trovavo un difetto di fondo. Volevo dare sostanza alla tesi che storie come quella di Bojack in realtà non ci avvicinano affatto alle persone famose solo perché ci raccontano che, anche loro, soffrono: pur correndo il rischio di fare una discriminazione di classe al contrario – visto che sei ricco non venirmi a raccontare che sei depresso, tu almeno sei ricco -, bisogna comunque fare attenzione nello scegliere a chi dedicare la nostra limitata scorta di empatia. D’altronde, si può anche essere depressi e stronzi, oppure essere infelici a causa del proprio essere stronzi, e nel caso di Bojack ci si avvicina proprio a entrambe le conclusioni – ed è difficile capire se è la serie stessa a voler farci andare verso questa direzione. Ed è per questa ragione che non sono riuscito a costruirci sopra una critica convincente. Non ci sarà dato sapere com’era davvero il Matthew Perry uomo, ma la piega drammatica che prese la sua vita fu così prematura e così pervasiva che viene spontaneo un senso di simpatia, come se ci fosse qualcosa che lo facesse sembrare una persona buona proprio come lo era quando interpretava Chandler Bing.

L’ultima scena di Friends ha una potenza davvero micidiale per la sua significativa semplicità. A chi dovesse avventurarsi in questo blog consiglio di non vederla senza aver visto (o rivisto) tutta insieme l’intera serie. Nel momento in cui Chandler [INIZIO SPOILER] rimane l’ultimo del gruppo a dire l’ultima battuta prima di uscire da quella casa/set parte Embryonic Journey dei Jefferson Airplane, mentre la telecamera ci fa una lenta panoramica dell’appartamento ormai vuoto. Una scelta di regia che colpisce, sia per il fatto che raramente in Friends si sentono brani originali famosi, che per aver scelto una canzone così unica, mistica e senza testo**. Non c’era modo migliore di concludere una serie che raccontava la quotidianità se non quello di inserire un grande cambiamento. Quella scena descrive in realtà un momento che capita a tutti di provare nella nostra vita ma che solo in poche occasioni abbiamo l’opportunità di vivere lucidamente: il momento in cui sappiamo che quella, proprio quella, sarà l’ultima volta in cui salutiamo qualcuno.

*In Bojack, c’è un arco narrativo in cui uno dei personaggi secondari di Horsin’ Around vuole fare uno spin-off con lui protagonista a anni di distanza dall’ultimo episodio. Successe quasi esattamente la stessa cosa con Joey di Friends.

**Perry dirà in seguito che mentre tutti si commossero alla fine delle riprese, lui non provò nulla, e non potè dire se fosse a causa degli oppiacei che assumeva all’epoca o del fatto che si sentisse già a quel punto “morto dentro”.

Più delle scommesse è la noia che dovrebbe preoccuparci

Anche se in realtà non dovrei giustificarmi lo faccio lo stesso: quello che sta per seguire è quell’articolo sul calcio che, statisticamente ogni sei post su questo blog, sento il bisogno di scrivere. In realtà non dovrei motivare questa scelta, visto che l’argomento offre spesso spunti troppo pertinenti per ignorarlo. È che magari di calcio se ne parla sempre troppo e quasi mai per dirne qualcosa di veramente significativo, quindi mi viene un po’ di ritrosia a contaminarci anche questo luogo già di per sé situato agli oscuri margini di internet.

Tutta la faccenda delle scommesse nel calcio, i retroscena, i personaggi coinvolti e l’adeguatezza (ma anche l’opportunità di certi dettagli) dell’informazione che l’ha seguita non è che sia proprio una novità, in fondo. Il calcio è ciclicamente travolto dagli scandali e, a dirla tutta, questo non sembra neppure uno dei più gravi. Però l’originalità di questa crisi in particolare è che sembra che sia molto più intima, individuale; la definirei una crisi del calciatore come figura pubblica, come identità sociale. Però c’è qualcosa di più, qualcosa di più sistemico e sfaccettato, che viene la tentazione di inserirlo nel grande quadro dell’aria di decadenza, vera o presunta, che attanaglia questo secolo.

In realtà è difficile cavar fuori un discorso organico (ma qualcuno si sta sforzando di farlo?) e senza scadere nella retorica (ma qualcuno sta evitando di farlo?). D’altronde, in fondo, cosa c’è da dire? Che è tutto marcio? Che una volta queste cose non succedevano? Che stiamo troppo appresso ai problemi di gente benestante che, se vuole dilapidare il patrimonio che ha ricevuto dalla lotteria della vita, bè, affari suoi?

Intanto, un aspetto di questa storia è la schizofrenia mediatica con cui sta venendo affrontata. Questi calciatori sono allo stesso tempo vittime per la stampa – della ludopatia, dell’immaturità, di persone poco raccomandabili, o di tutte e tre le cose insieme – e criminali per la giustizia – banalmente perché c’era una regola che hanno infranto. Questa strana gogna a metà sembra derivare, e qui ipotesi mia, dal fatto che il reato di cui sono accusati non sembra, in fondo, così serio. Sono piovute infatti insinuazioni, la cui fondatezza pare ancora indimostrabile, che le scommesse siano un fatto acquisito tra i calciatori. Gianluigi Buffon, uomo con la straordinaria dote di dire sempre la cosa sbagliata ma con un carisma tale da fartela sembrare legittima, lo ammise candidamente (ma non scommetteva sul calcio). Quindi, la sottile sfumatura sul fatto che Fagioli sia ludopatico, perché lo abbiamo beccato a scommettere sul calcio (e su siti illegali), che non si fa, e Buffon che non lo è, o almeno nessuno lo ha mai sostenuto, visto che scommetteva su altri sport (e lo faceva al tabacchi sotto casa), appare come una solco tracciato arbitrariamente. Ma il punto non è tanto quello di questionare sui cavilli giuridici o psicologici della faccenda, quanto di non riuscire a mettere a fuoco l’obiettivo con cui stiamo giudicando le azioni di questi uomini. Sono malati? Sono corrotti? Sono compagni (di squadra) che sbagliano? Ciò che colpisce è che il nostro giudizio morale come società si incarti clamorosamente in una questione così marginale, il che spiegherebbe come mai il dibattito pubblico su questioni più serie deragli così facilmente.

L’altro tema è che i calciatori sono persone che hanno troppa fama e troppi soldi quando sono troppo giovani. E che, magari, sono anche più fragili oggi di quanto non lo fossero state le generazioni precedenti. Ergo, anche se di scommesse ce n’erano in tutte le epoche, caderci così ingenuamente e volontariamente non era così facile. Difficile, come sempre in questi casi, smentire questa fallacia logica: ci può star bene che queste cose non succedevano prima per limiti materiali (per dire, il gioco d’azzardo compulsivo è più facile con internet), ma da qua a delineare un passato più roseo ce ne corre. Non esistono indicatori oggettivi per misurare il si-stava-meglismo, ma la percezione arriva in soccorso coi suoi bias. I calciatori di una volta – o gli umani, in generale – avevano più spessore? Forse no, ma viene da dire che sembravano meno bambini. L’impressione è che l’atleta del passato conservava quell’aura di rigore e di sofferenza (intesa come dedizione allo sforzo fisico) che sembra svanita se messa a confronto con la maniera in cui percepiamo i calciatori di oggi. Per farla breve e riassumere con una domanda: oggi rispetteremmo un calciatore in quanto tale?

E poi c’è l’assuefazione, subdola nebbia che anestesizza l’indignazione. La comunità calcistica ha risposto allo scandalo a suon di meme e battute caustiche, e fin qui tutto nella norma. A questo giro però, sembra esserci una sorta di pochezza, persino nell’originalità dei prodotti derivanti da questo bisogno impellente di memizzare la realtà, e di fatigue nello sforzo stesso di voler prendere una posizione, anche goliardica, sulla vicenda. A testimonianza dell’eterno ritorno dell’uguale di cui siamo vittime, ritorna pure un personaggio all’apparenza totalmente anacronistico considerata l’irrilevanza a cui auspicabilmente sembrava condannato. Fabrizio Corona è la matrice di tutta la vicenda, l’uomo che ha sempre vissuto nel lato oscuro della legalità. Corona, all’apice della sua carriera (!), riscuoteva pure un certo seguito, almeno tra chi era desideroso di vederli piangere questi ricchi. Oggi, pur facendo lo stesso, la sua figura portatrice di caos ci lascia quasi indifferenti. Per fare un parallelismo provocatorio, i nomi dei calciatori-scommettitori che Corona sta divulgando ci suscitano la stessa reazione che avremmo se sapessimo che le stesse persone fossero accusate di calpestare le aiuole là dove è vietato. Tutto questo disinteresse, mentre i giornali si affannano ad inseguire gli scoop sulle basi di debolissimi contenuti pubblicati in rete (e sulle sempre rimandate previsioni dell’oracolo Corona), è forse alimentato dai fatti sempre più grotteschi che hanno riguardato la vita privata dei calciatori nei tempi recenti: Pogba che va da un marabutto per fare una macumba, Osimhen ricattato dal cognato perché non gli sono stati dati dei soldi, Macron che va da Mbappè per chiedergli di non trasfersi all’estero durante il calciomercato.

Infine c’è la noia. Sembra quell’elemento messo alla fine di una storia di cronaca solo perché fa da sfondo, completando il quadro della vicenda dandole contorni esistenziali. Il vivere diventa troppo banale quando non si lotta per la sopravvivenza, potremmo dire poeticamente, perciò quando si ha tutto viene voglia di scommetterlo. Fagioli – calciatore di ottime prospettive in Serie A con la Juventus, quindi atleta che vive dei migliori stimoli possibili – confessa essersi addirittura indebitato a causa del gioco d’azzardo. E confessa di averlo fatto per noia. Ecco, sembra una motivazione riduttiva nell’epoca dello “eh, ma è più complesso di così”, ma in effetti esistono delle motivazioni più ragionevoli per scommettere? Che poi la noia non è un sentimento necessariamente negativo, in generale: stimola la creatività e incentiva la novità. Ma alla luce di quanto detto, inizio a non concepire parola più calzante per definire la nostra epoca declinante: il nostro mondo finirà con uno sbadiglio.

E comunque, secondo me, erano meglio i calciatori di una volta.

Non è stato (solo) questo mondo a rendermi cattivo

C’è un’assonanza inconsapevole tra il nome della seconda serie di Zerocalcare e un’altra serie, forse quella per antonomasia, che si è conclusa esattamente dieci anni fa. “Breaking bad” è un’espressione difficilmente traducibile in italiano ma se volessimo farlo in maniera rozza e letterale uscirebbe qualcosa del tipo “diventare cattivo rompendosi”; una formulazione che, per quanto grossolana, assume un significato su cui vale la pena soffermarsi.

Mi è venuto spontaneo fare questo parallelismo – forse troppo coraggioso, com’è capitato altre volte in questo blog – dopo aver visto l’ultima puntata di “Questo mondo non mi renderà cattivo”, che coincidenza ha voluto essere stato pochi giorni prima aver concluso il mio primo rewatch di Breaking bad. D’altronde non solo entrambe le serie hanno nel titolo la parola cattivo, ma lasciano intendere che uno per arrivare ad esserlo venga sottoposto ad un determinato processo; viene da chiedersi se per le due serie sia il medesimo.

Walter e Cesare affrontano una metamorfosi per certi versi simile, sebbene le premesse da cui partono siano diverse. Walter all’inizio sembra essere un personaggio del tutto innocuo, addirittura disposto a farsi da parte quando scopre che curarsi il cancro equivarrebbe a mandare in bancarotta la sua famiglia. Cesare viene presentato come un adolescente difficile, cliché del ragazzo problematico che prima o poi imbocca la strada sbagliata. Ciò che cambia è il contesto delle due storie, o meglio, la loro angolazione narrativa. La storia di Cesare viene raccontata con una certa dose di empatia visto che agli occhi di Zero quello era pur sempre un amico il quale, rompendosi, è passato dalla parte dei cattivi. C’è però un dilemma che viene sottoposto ossessivamente: la voce narrante di Zero si chiede se sia il caso di giudicare le scelte di Cesare, soprattutto dalla prospettiva di uno che nella vita “ce l’ha fatta”. Nel caso di Walter le cose sono diverse: il suo cambiamento viene riconosciuto solo da sua moglie, l’unica che potrebbe dirgli “perché sei cambiato, cosa ti è successo?” eppure non lo fa. Ecco, in Breaking bad questa metamorfosi è un fatto compiuto che non viene analizzato con le lenti del sentimentalismo. Jesse, passato lo stupore iniziale, non si interroga sul perché il suo ex professore di chimica decida di darsi al traffico di metanfetamina; Skyler non giustifica mai suo marito, neanche per un secondo, magari dando la colpa della sua rottura al cancro; Hank, quando lo scopre, non si pone nessuna domanda, lo prende semplicemente a pugni. Insomma nessuno dei personaggi prova compassione per Walter anche se tutto il suo comportamento, a voler essere indulgenti, poteva essere spiegato dalla piega tragica che aveva preso la sua vita.

Il nocciolo della questione risiede proprio in questo, nella definizione di cattiveria. Il fatto che la vita, il mondo, ci renda persone peggiori strada facendo, deve essere una spiegazione o una giustificazione? E a prescindere dalla risposta, a conti fatti, come ci collochiamo noi, noi cioè quelli-che-si sentono-essere-immuni-ai-colpi della-vita-solo-perché-non-hanno-deciso-di-diventare narcotrafficanti-o-estremisti-di-destra? La divergenza di interpretazione tra le due serie ce la forniscono altri due personaggi. A Jesse viene tolto tutto, l’amore della sua famiglia, la vita delle sue ragazze, perfino la sua dignità di uomo libero. Eppure sembra che ogni tragedia che subisca lo pieghi, ma non lo spezzi moralmente; anche lui si rompe, ma non esce cattiveria dalle sue crepe. Sara, raccontata da Zero come il personaggio più saggio del gruppo, ad un certo punto sbotta perché la vita non le ha dato le soddisfazioni che sentiva di meritare. Finisce ad insegnare nella scuola – insegnare è stato il suo obiettivo di vita fino ad allora frustrato – del quartiere oggetto delle proteste contro il centro d’accoglienza, schierandosi anche lei a sfavore per preservare il suo nuovo status. Se la storia di Sara non fosse verosimile (non è chiaro se le storie di Zero raccontino spezzoni di vita vissuta o ne traggano parzialmente ispirazione) il paragone tra i due sarebbe impietoso: a quanto pare è vero che l’occasione faccia l’uomo ladro, anche quando si tratta di principi.

Quest’ultimo punto è decisivo, ed è in base alla nostra scala di valori che possiamo ricavare una morale dalle storie delle due serie. Se Walter non avesse avuto il cancro, sarebbe diventato comunque Heisenberg? Se Zero fosse rimasto amico di Cesare, quest’ultimo sarebbe finito lo stesso col diventare neofascista? Ma se le nostre scelte etiche dipendono solo da quanta fortuna o sfortuna abbiamo avuto nella vita, esiste davvero una morale kantianamente assoluta? Il fatto è che in Breaking bad non si parla di morale, mentre in Questo mondo non mi renderà cattivo non è chiaro in che termini lo si faccia. Quello che succede a Walter è una sorta di slavina nichilista che si ingrossa crimine dopo crimine, omicidio dopo omicidio, fino al punto che dare patenti di moralità diventa solo uno sterile esercizio. Il colpo di scena alla fine della serie di Zero invece, è Cesare che dice alla sua ex bidella che non ce l’ha con gli stranieri ma coi politici. Questo sfogo è difficilmente inquadrabile, perché ci fa oscillare tra lo “aaah, ma se ce l’ha coi politici allora non è cattivo” e lo “eh, ma quindi che vogliamo fare?”; inoltre l’episodio cerca redimere anche Sara, che interviene con un megafono dicendo che il problema non è il centro d’accoglienza ma il degrado del quartiere. Entrambe le cose sembrano però una forzatura, un voler riprendere questi personaggi per la giacchetta e tentare di assolverli dalle loro “deviazioni” etiche.

Alla fine di Breaking Bad i cattivi della serie diventano Zio Jack e la sua banda di sicari neonazisti – che possiamo definire tali solo perché tatuati di svastiche, non perché ci viene illustrata la loro agenda politica. E questo è un elemento che, a voler scommettere i famosi due cents, forse non è lasciato al caso: nel contesto di Breaking Bad, non è tanto il fatto che questi personaggi siano nazisti a renderli spregevoli ma è il loro stesso essere spregevoli a farli identificare con l’ideologia più scevra da qualsiasi connotazione morale in assoluto. In poche parole, lo Zio Jack e i suoi scagnozzi non credono in niente, per questo sono nazisti. Nessuno viene a spiegarci, a loro discolpa, le ragioni che li hanno portati a essere così. Forse perché, alla fine, il conoscerle sarebbe del tutto insufficiente per la loro redenzione.

Il Natale è l’unica cosa capitalista che si fa voler bene

Pur dicendolo con molta cautela, questo Natale sembra, e dico sembra, essere un Natale di ritorno alla normalità*. Oddio, definiamo normalità: la pandemia ha abbassato di netto la soglia di ciò che prima consideravamo normale. Quindi, già un fine anno senza bollettini allarmanti di contagi, vaccini e tamponi ci va più che bene. Poi c’è la guerra, l’inflazione, il riscaldamento climatico, ma prendiamoci una pausa, ci penseremo dopo le feste.

Tornando a vivere il Natale “come si faceva una volta” ho pensato al significato, rigorosamente pagano, di questa tradizione di cui ho sempre subito il fascino. Probabilmente c’è un mix di fattori. D’altronde è un periodo che coincide con le vacanze da scuola, le ferie dal lavoro, la nostalgia di quando si era bambini, le luminarie per strada, la malinconia di un anno che giunge al termine, il freddo e il tepore di casa quando si rientra dopo una lunga giornata fuori.

Una volta mi è stato chiesto perché mi piacesse così tanto il Natale e mi è venuto di getto replicare, senza pensarci troppo, “per il consumismo”. Devo dire che mi sono vergognato un po’ di questa riposta, però ho anche pensato si potesse fare un tentativo per contestualizzarla. Partiamo dalle basi. Cos’è il Natale da un punto di vista laico? Come si collega la tradizione religiosa cristiana della natività con l’abitudine di decorare un albero risalente forse ai tempi dei Celti o dei Vichinghi, e con un pasciuto uomo vestito di rosso che entra nei camini di tutto il mondo per lasciare doni, la cui immagine così come la conosciamo oggi venne popolarizzata dalle prime pubblicità di un secolo fa? Non è una novità nella storia umana costruire credenze o tradizioni sulla base di elementi decontestualizzati presi in prestito da altre culture, soppiantate da quella dominante negli infiniti cicli che attraversano le civilità. Il Natale moderno non ne è nient’altro che l’ennesimo esempio. La storia dell’essere tutti più buoni per ottenere doni, per quanto pigra possa sembrare, è in realtà una costante in tutto il folklore proto-natalizio.

Con questa litania moraleggiante sulla bontà e sullo spirito del Natale sono stati fatti i migliori film (o episodi di serie TV) a tema Natalizio, in particolare quelli di matrice americana, visto che negli Stati Uniti, patria dell’esagerazione, anche il Natale lo si vive sempre in grande stile. Infatti non c’è trama più scontata di quella di un film natalizio: persino nel Grinch, forse il tentativo più originale di descrivere il Natale, alla fine tutti finiscono col volersi bene. Ma il fatto è che ci sta. C’è da dire che, ogni tanto, questo modo melenso e stucchevole con cui si coltiva l’illusione che le cose andranno bene solo perché è Natale – perché a Natale non succede mai niente di male, è risaputo – è confortevole. Forse è davvero un tentativo, totalmente arbitrario, di prendersi una pausa dal malassere del mondo e accettare con più sportività lo scorrere del tempo, convenzionalmente fissato al 31 di ogni dicembre, dilatandolo oltremodo con pasti luculliani e socializzazioni più o meno forzate.

Così, tornando al consumismo, accettare di vivere secondo il manuale del Natale per poterne godere dei simbolici frutti richiede come corollario l’accettazione del proprio status di consumatore. Si acquistano decorazioni, maglioni e regali, ovviamente; si ascolta la musica, si guardano i film e gli spettacoli a tema; si va a sciare o alla ricerca del migliore mercatino. È il kit essenziale per aderire alla tradizione. E per questo è un consumismo buono, un accostamento che lascia perplessi come quando lo si diceva di Papa Wojtyla, il Papa buono.

Vi ho convinti? Sono sicuro di no. Ma perché continuare a versare inchiostro virtuale quando c’è stato qualcuno che è riuscito a far capire il Natale meglio di tutti in soli 4.38 minuti?

Aggiornamento del 22 dicembre:

Non so se essere preoccupato o affascinato dal fatto che qualcun’altro si faccia i miei stessi problemi su certi argomenti.

* Poco dopo aver scritto quest’articolo mi presi il covid.

Vaporwave è un tentativo di psicanalizzare la nostra società

Si è parlato di chillwave e di synthwave, con le loro svariate declinazioni, in questo blog. Tuttavia avevo omesso un’altra nicchia della cybercultura musicale che ho riscoperto casualmente questi giorni. V A P O R W A V E, musicalmente, riprende alcuni degli stessi contenuti dei brani della chill/synthwave. Eppure ciò che colpisce maggiormente è l’estetica, a partire dalla scelta di caratteri dei titoli dei pezzi: lo spazio tra una lettera e l’altra, il grassetto insieme al maiusc, alle volte la presenza dei simboli di tastiera meno utilizzati o ideogrammi asiatici, seguiti da numeri, tutti elementi che sembrano randomici.

Le scelte visuali dei pezzi vaporwave, sebbene probabilmente casuali nei dettagli, sono coerenti a un canone estetico – o AESTHETICS – comune a tutti gli artisti. Tra gli elementi che compaiono nell’immagine statica dei video di YouTube in cui troviamo questi brani c’è una commistione retrofuturista che unisce elementi di cultura pop-consumista in particolare degli anni ottanta e novanta, tecnologia ormai superata (monitor CRT, CD) ed elementi posticci del mondo classico greco-romano, come busti o sculture che sembrano più di plastica che granito. Il tutto appoggiato su di uno sfondo lisergico, spesso colorato con tonalità nebbiose e innaturali di colori sgargianti, come l’arancione o il viola, che lasciano intendere l’esistenza di un mondo virtuale – una specie di metaverso ante litteram – in cui tempo e spazio si confondono. Nella musica, le “lyrics” di questi video possono essere jingle pubblicitari destrutturati, rallentati e timbricamente alterati, che sembrano eco di interferenze captate dallo spazio profondo.

La particolarità di questi video è che lo shock da nonsense è così forte che in qualche modo riesce a suscitare emozioni inaspettate e lancinanti, soggettive a seconda di chi le sperimenta. Tra l’altro, caratteristica comune a tutte le altre ramificazioni della “wave”, questo genere musicale non avrebbe lo stesso significato se ascoltato fuori da YouTube, cioè senza la componente visiva. Per quanto ossimorico possa sembrare, questo è un genere di musica che, per essere apprezzato, deve essere visto oltre che ascoltato.

La stessa denominazione, vapor, è emblematica dell’inconsistenza di questo coacervo di caratteristiche che, non essendo legate da un significato apparentemente univoco, sembrano manifestazioni oniriche, evanescenti, che danno la sensazione che ciò che si è visto o ascoltato sia stato frutto di un sogno lucido. Inoltre, lascia intendere anche il carattere allucinogeno di questi video, i cui “vapori” (anche quelli emanati dalla sbornia consumista della nostra epoca) ci lasciano inebriati. Il fatto che il consumismo rappresentato sia quello più vintage, lascia un alone di nostalgica autoassoluzione, come se i prodotti di qualche decennio fa fossero più innocenti e innocui, forse perché consumati senza il senso di colpa che attanaglia il nostro presente, dove consumismo e capitalismo fanno rima con crisi economiche, diseguaglianze e disastri ambientali.

Tuttavia il tema portante della Vaporwave rimane la nostalgia o meglio, una sua rappresentazione incredibilmente fedele rispetto a come viene generata dalla nostra mente. D’altronde, la nostalgia è la dialisi del nostro passato: tutto ciò che ricordiamo, anche periodi non necessariamente felici, assume dei connotati positivi solo perché rappresenta qualcosa che c’era e non c’è più. La stessa Tassoni “vaporizzata” nel video sopra, una bevanda che tutti conoscono ma che pochi hanno assaggiato, diventa un elemento che manca nel nostro presente solo perché esisteva in potenza, non perché fosse effettivamente importante berla; era confortevole che esistesse perché faceva parte del nostro quadro composto di certezze. La Tassoni, come il Maurizio Costanzo Show, erano cose così martellanti e onnipresenti all’epoca che la loro subdola ed improvvisa sparizione ci lascia atteriti*. Eppure il fatto che vengano riesumate e riproposte in questa chiave aiuta ad elaborare il lutto della loro dipartita tracciando una linea di continuità con il passato della nostra società, come quando si guarda le foto di noi da bambini chiedendosi: com’è possibile che una cosa così diversa rispetto alla sua forma attuale sia esistita per davvero?

La pagina di Wikipedia inerente alla Vaporwave, accenna a una sua interpretazione in chiave anticapitalista addirittura ricercando la sua origine in un passo del Capitale di Marx, cosa che sembra non tornare (o quantomeno essere fraintesa), visti i sospiri che suscita nei commenti degli utenti di YouTube. Più convincente è il riferimento al tentativo di creazione di un linguaggio universale, in cui immagini e suoni diventano messaggi facilmente decifrabili da tutti perché in fondo trasmettono emozioni che non devono essere necessariamente capite, ma solo provate. Infatti, sembra riduttivo attribuire un esclusivo fine di critica sociale ad un qualcosa che tenta, forse incosciamente, di dare sfogo a sentimenti di cui ancora fatichiamo a trovare delle definizioni; una sorta di lallazione a seguito della quale, forse un giorno, troveremo le parole che cerchiamo.

* Che poi precisiamo: non è che entrambe le cose sia proprio sparite. La cedrata Tassoni è ancora in commercio, mentre il Maurizio Costanzo Show è andato in onda fino al 2022. La questione non era tanto la loro mera esistenza, ma la loro rilevanza.

Mi ero scordato che tra poco si vota

Di questa campagna elettorale ho apprezzato il fatto che, essendosi svolta principalmente d’estate e nel mezzo di mille altri casini, se ne sia parlato relativamente poco. La cosa che mi avvilisce è che pur nelle poche cose rilevanti affrontate, si è finiti per scadere comunque nelle solite frasi fatte di cui parlavo amaramente tre anni fa. Infatti, per quanto autoreferenziale possa essere, e lo è, mi sento di quotare l’intero discorso di questo mio vecchio post. Tuttavia, contrariamente a quanto dice l’adagio a proposito di barili e di fondi, ci sono state alcune esternazioni (e qua la par condicio viene facile, perché ogni schieramento ne ha fornito le sue giuste dosi) che ho trovato ancor più discutibili e su cui vale la pena riflettere.

L’agenda Draghi” del Terzo polo. È raro che in campagna elettorale un candidato non si intesti i meriti del suo operato precedente o dica di fidarsi, che tanto ci penserà lui a far le cose per bene. E invece il Terzo polo, che vede in Carlo Calenda il suo principale volto, ci ha dato una bella lezione di umiltà. La sua campagna elettorale è stata basata sulla figura di una persona che non candida (e essa stessa non ha intenzione di farlo) seguendo al tempo stesso una sua presunta agenda che, per la quasi totalità, si è basata su eventi contingenti e forse irripetibili (il piano di vaccinazione e la scrittura del PNRR). Poche cose come questa riflettono il declino dell’offerta politica nel nostro paese, dove gli stessi leader che si candidano (seppur in possesso di un discreto ego) ammettono implicitamente di non aver abbastanza spessore per fare le cose che propongono di fare, ricorrendo alla solita speranza del deus ex machina.

Votate noi perché non siamo fascisti” del PD. Se è vero che i programmi elettorali, contrariamente alle aspettative, sono l’ultima cosa che si legge in periodo di elezioni, almeno la parvenza di un’idea di cosa si promette al paese di solito uno la riesce ad avere. Ecco, il PD a questo giro non ci è riuscito, a meno di essere in possesso di un orecchio finissimo. Le principali argomentazioni che sono uscite dal leader Enrico Letta hanno riguardato i pericoli che rappresenta votare per il centrodestra, in particolare Fratelli d’Italia, per la decennale tanto paventata deriva autoritaria. E così sono sorti due problemi: 1) Di deriva autoritaria si parla dal tempo dei governi Berlusconi e, a forza di gridare al lupo al lupo ogni qualvolta la destra di qualsiasi sfumatura rischiava di vincere le elezioni, adesso non ci crede più nessuno, proprio la volta che forse il pericolo c’è davvero. 2) Se, e quest’anno ne ricorre pure il macabro centenario, qualcuno dal nulla marciasse su Roma allora a pochi rimarrebbe il dubbio che, insomma, lo spettro dell’autoritarismo è tornato. Il problema della democrazia è che, finché non si governa, non si sa quanto la persona che hai votato diventi effettivamente pericolosa per le istituzioni (cosa che, se il sistema tiene, viene comunque arginata dai pesi e contrappesi costituzionali). Quindi non si possono cambiare le regole del gioco, la democrazia, solo perché il risultato non ci sta bene. Insomma, se il centrodestra vince è perché ha avuto più voti e quindi il marcire della democrazia non è colpa di Giorgia Meloni: è Giorgia Meloni a esserne una conseguenza.

“Giorgia Meloni potrebbe diventare la prima donna capo di governo in Italia” del centrodestra. Questo è forse uno dei più grandi cortocircuiti che riguarda politica e avanzamento dei diritti civili. Dobbiamo gioire che una donna diventi Presidente, di qualsiasi ideologia sia portatrice, o dobbiamo essere esigenti, cioè che deve essere una donna “giusta”? Indubbiamente, a Meloni va riconosciuto il merito di essere arrivata all’apice della sua carriera politica in un partito dove le questioni di genere non è che siano esattamente all’ordine del giorno. Quindi il problema è più “nostro” – nostro di chi aderisce ad un certo set valoriale sui temi dell’inclusione – che suo. Ma questo inatteso effetto collaterale di Meloni premier-donna potrebbe coincidere con una maggiore diluizione delle sue istanze più estremiste? Per intenderci, se Meloni vuole continuare a guadagnare consensi, cosa che sta facendo, l’ideale sarebbe diventare più moderata, altra cosa che sta cercando di fare, così da attrarre più persone che non siano solo nostalgiche del duce. Altrimenti, non trovo altri lati positivi da tutta questa faccenda.

“Il recupero dei consensi” del Movimento 5 Stelle. “L’effetto Conte” sembra essere stata una mossa che nel medio periodo ha pagato, visto che il M5S, in netta crisi di consensi ha riguadagnato terreno. Eppure nella figura dell’ex premier ci trovo un’anomalia così palese che mi sono sempre sorpreso di doverla spiegare agli altri, anche non elettori del Movimento. È che il Conte personaggio piace, alla fine. E in effetti aveva, sotto pandemia, sorprendenti indici di gradimento. E tuttora qualcuno ne subisce lo charme. Forse perché, nei modi, l’uomo ha un che di rassicurante e conciliatorio. E forse perché, visto l’impatto emotivo della pandemia, il vederlo quotidianamente in TV in quei tempi cupi ha risvegliato in noi una sorta di affetto familiare, come quello che si prova nei confronti di un caro zio che si ha sempre piacere di vedere, al quale ci siamo attaccati perché in fondo all’epoca eravamo spaventati. In realtà Conte rappresenta proprio, in una mia rivisitazione di Goya, quel sonno della politica che genera mostri; non mostro, ma di sicuro dormiente. Una figura di compromesso che aveva il ruolo di spaventapasseri ai tempi del duo Salvini-Di Maio frutto del voto del 2018, passacarte di ogni misura scriteriata dell’epoca, capo di un governo tra i più maldestri della storia italiana e che, per caso, si trovò a governare un paese in una delle fasi più drammatiche della storia dell’umanità a suon di DPCM ricolmi di bizantinismi che rimandavano di mese in mese le decisioni urgenti che dovevano esser prese.

Deep adaptation

Era da qualche anno che avevo salvato questo paper che mi ripromettevo di leggere e che continuavo a rimandare. Forse perché in fondo parlava di una cosa che pensavo già. Quindi ho pensato che potesse essere utile, per quei soliti viandanti del web che finiscono qua per caso, riassumerne i punti salienti.

L’autore del paper cerca di dimostrare che l’approccio adottato finora dalla comunità scientifica e dai gruppi di interesse ambientalistici per la divulgazione delle conseguenze del cambiamento climatico sia sostanzialmente sbagliato. In breve per Jem Bendell, l’autore, la situazione è ormai talmente compromessa che dovremmo iniziare a fare i conti con l’idea del collasso stesso della società. L’approccio mainstream, sostiene, viene edulcorato per il grande pubblico per non generare una sensazione di sconforto, che spazzerebbe via la speranza di poter effettivamente rendere reversibile il degrado dell’ambiente. Il che è stucchevolmente paternalistico, dice Bendell, in quanto le opinioni dei cittadini raccolte dai sondaggi in merito alla questione lasciano intendere che in molti sono coscienti della gravità della situazione e non è detto che un linguaggio più franco non sia foriero di una maggiore disponibilità al sacrificio. Questa impostazione del dialogo tra esperti e pubblico è frutto di uno stato di perenne negazione, tipica di ogni civiltà che ha il suo “blind spot” da cui non riesce a percepire la sua stessa fine.

La stessa terminologia in voga sembra mancare il nocciolo della questione. Si pone l’accento sui concetti di “resilienza” e di “sostenibilità”, che lasciano intendere una volontà di mantenimento dello status quo: la società diventa più resistente al mutare del clima e si riforma in modo da azzerare il suo impatto sul pianeta; tuttavia rimangono soluzioni parziali, perché sterilizzano le conseguenze di comportamenti sbagliati lasciandoli inalterati. Dovranno seguire le fasi di “relinquishment”, il lasciare andare per sempre alcune cose che diamo per scontate (per dire: città lungo la costa, settori di produzione industriale che non producono cose necessarie se non per la nostra ingordigia consumistica), di “restoration”, in cui si dovranno riprendere gli usi che sono stati cancellati dalla società a trazione-fossile (sia nei consumi, ma anche dal lato sociale), e di “reconciliation”, ossia vivere con la consapevolezza che tutti gli sforzi potrebbero anche non bastare – che è un po’ la fase dell’accettazione nel lutto. Insomma, è questione di un adattamento profondo, da qui il titolo dell’opera, che richiede uno sforzo superiore all’installazione di qualche pannello solare. Ma ci stiamo preparando come si deve?

Concludo con un contributo mio, ma che in realtà copio da un pezzetto di Vice, la storia di Dick Cheney: lo stesso termine “cambiamento climatico” è l’ennesimo, subdolo, funambolico gioco linguistico che disinnesca un concetto altrimenti troppo destabilizzante. Nei primi anni duemila si parlava di riscaldamento climatico e non di un più assuefacente cambiamento. Sarebbe ora che la coscienza del disastro, da sempre temuta perché si ritiene conduca all’anarchia, diventi un esercizio di saggezza collettiva. Invece di vivere in uno stato di negazione – di cui la crisi ambientale è solo l’ultima grande testimonianza – si potrebbe fare uno sforzo e migliorare come esseri umani. Direi che nella società libera e democratica, pinnacolo di tutte le società umane finora esistite, che abbiamo costruito si dovrebbe avere anche il diritto di sapere le cose come stanno anche quando sono disperate. D’altronde, a quasi 300mila anni di età siamo bimbi grandi, ormai.

Stranger Things è solo un prodotto della nostalgia?

Finito di guardare la quarta stagione di Stranger Things la prima cosa che ho pensato è che questo show ha raggiunto un livello di qualità tale che la prossima stagione, quella conclusiva, rischia di non essere all’altezza delle aspettative. Questo per dire quanto questa serie mi abbia appassionato – e non sono di sicuro l’unico a pensarlo -, quindi preciso che questo non sarà un post di critica cinematografica. Tuttavia c’è stata una sensazione, quasi un rumore di fondo, che mi ha accompagnato fin dalla sua messa in onda su Netflix. La sensazione che i riferimenti culturali agli anni ottanta, il periodo in cui si è scelto di ambientarla, siano stati così forzati da risultare un po’ stucchevoli. Vedendo questo video che ne parla in relazione alla nostalgia (sicuramente quella degli autori, che hanno vissuto la loro giovinezza in quel periodo) ho trovato una conferma alle mie ipotesi.

Stranger Things ricalca alla perfezione il tipo di prodotto classico del cinema anni ottanta. Per quanto la trama sia indubbiamente originale nei contenuti, la semplicità quasi pigra di raccontare la storia (di fatto l’ennesimo scontro del bene contro il male, male che però è assoluto ed inconoscibile, quindi non passabile di salvezza o analisi: col demogorgone non ci puoi ragionare, e coi russi-comunisti nemmeno) è esattamente nello stile della cultura del periodo. C’è da dire che nella quarta stagione si arriva ad una maturità diversa, visto che forse (interpretazione mia e SPOILER) Vecna diventa un’allegoria del trauma e del senso di colpa che alcuni personaggi fanno fatica ad elaborare e che, incancrenendosi, si manifesta assumendo fattezze mostruose (metafora della sofferenza psicologica).

Più in generale, i riferimenti all’epoca sono sicuramente indispensabili per dare un contesto ma alle volte sembrano essere buttati nelle scene solo perché “fanno figo”. Un po’ come (SPOILER) la scena in cui Eddie suona i Metallica per attrarre i pipistrelli del sottosopra, che ha il duplice compito di dare epicità alla scena attingendo al tempo stesso a uno dei prodotti culturali di successo degli anni ’80, cioè la musica metal. Oppure la canzone, ricorrente per tutta la stagione, “Running up that hill” di Katie Bush che in effetti ha sortito proprio l’effetto di un revival nel presente.

Ora, queste critiche lasciano il tempo che trovano, perché è ovvio che nel cinema si forza un po’ la mano sulle storie per conferirgli il più alto grado di coinvolgimento possibile. Però viene da chiedersi, come capita da queste parti, quanto sia sano riattingere a fenomeni culturali del passato facendone dei veri e propri “remake nelle intenzioni” e non una fonte di ispirazione. Per intenderci, anche se i film dell’epoca avevano gli stessi vizi che alle volte sconfinavano un po’ in un trash ante litteram (ne cito un paio per dare l’idea: Grosso guaio a Chinatown e Highlander), vederli oggi è comunque un’esperienza piacevole perché si può respirare davvero l’atmosfera di quei tempi visto che, giocoforza, ne erano il frutto diretto. Tra l’altro, i film che ho citato a me sono piaciuti un sacco pur trasudando di tutta quell’ingenuità magica che solo quel decennio sapeva offrire.

Insomma, mettendola un po’ terra terra, verrebbe da chiedersi perché preferire la copia all’originale. O meglio, perché la storia di Stranger Things non poteva essere ambientata ai giorni nostri? Che valore aggiunto le conferisce l’essere ambientata negli anni ’80? Ovvio che si tratta di tutte domande retoriche, che però celano quella sensazione di non riuscire a schiodarsi da un passato che assume delle connotazioni positive per definizione. D’altronde la tranquillità che offre la nostalgia è il miglior rimedio ad un presente un po’ troppo movimentato.

È finito il mondo e non ce ne siamo accorti?

Ho appena finito di vedere il mini-documentario “Trainwreck: Woodstock ’99” su Netflix. Passando sopra a quell’approccio fastidioso che hanno gli americani nel girare documentari – lo paragono all’abitudine che hanno di mettere sull’insalata un sacco di cose oltre all’olio, il sale e l’aceto: il voler sovraccaricare qualcosa che li annoia per la sua intrinseca semplicità -, lo consiglio davvero per i filmati di repertorio. In pratica, nei tre episodi si parla di come andò l’edizione di Woodstock a trent’anni da quel Woodstock, l’originale. E andò parecchio male.

In qualche modo fu la fine di un’epoca. Era pur sempre la fine del millennio e com’è naturale che fosse – o che si sarebbe rivelato essere – tante cose stavano per finire. In quell’ambito lì, di Woodstock, a finire era la musica, avrebbero detto alcuni, o l’idea di comunitarismo degli anni ’60, quando si credeva (e forse ci si riuscì, seppur per poco) che si era diventati, come individui, abbastanza saggi da autogestirsi senza il bisogno che lo imponesse l’autorità. D’altronde, Woodstock del 1999 fu anch’esso una manifestazione di anarchia ma di segno opposto. Non fu l’emancipazione dall’autorità ma la primitiva voglia di annientarla. E non essendo questa violenza sostenuta da un ideale finì con lo sfogarsi sugli stessi partecipanti, con conseguenze indicibili.

Facendo uno dei soliti voli pindarici che mi capita fare in questo blog – insomma, la parte per il tutto -, questo documentario mi ha fatto riflettere su come il nostro declino – nostro di chi? dell’occidente, del mondo? il mondo è occidente? – sia stato lento ma inevitabile. Mi viene in mente la storia della rana messa a bollire nella pentola: il fuoco era così basso che era difficile accorgersi quanto scottava. Quello che sta succedendo da due anni a questa parte, dalla pandemia, alla guerra in Ucraina, alla possibile – ma speriamo di no – Terza guerra mondiale tra Usa e Cina, a Chiellini che ferma la palla con le mani, sembra proprio la fine dei tempi. Ecco, non la fine del mondo, che tutti ci immaginiamo col meteorite o con la bomba. Ma proprio la fine dei nostri tempi. Di quello che siamo abituati a fare e a pensare in un certo modo.

Mi chiedo come si sentirono le persone al tempo della fine dell’Impero romano. Anche in quel caso, non si trattò di fine del mondo ma di fine di un mondo, quello dei romani. E penso che poi, dopo qualche secolo di assestamento, alla fine si creò un equilibrio grosso modo rimasto inalterato fino ai giorni nostri. Dall’anno 1000 fino al 1999 non ci furono sconvolgimenti di portata simile alle invasioni barbariche e anche le due guerre mondiali, per quanto atroci, non minarono le fondamenta del sistema. Per intenderci, gli Stati rimasero tutti più o meno in piedi: per un tedesco o per un italiano, un francese, un inglese, le cose sarebbe continuate ad essere secondo una prospettiva piuttosto simile a quella di prima della guerra. Solo che adesso le forze ostili non sono soltanto esogene, ma anche endogene. Woodstock ’99 è potenzialmente ovunque, come un virus latente. È la ruggine della società che corrode dall’interno le sue stessa fondamenta. E visto che stanno mancando i trattamenti adeguati per tenerla a bada – il benessere, la sicurezza, la speranza – tutta la struttura rischia di crollare. E anche volendo fare i difensori dello status quo, diventa sempre più difficile giustificare un sistema che necessita di cambiamenti che sono stati negati per troppo tempo: vuoi che siano interni, nel modo in cui funziona la democrazia, o esterni, negli equilibri di potere del sistema internazionale.

Ma chi si batterà per un mondo che è già finito?